Una recente ordinanza della Corte di Cassazione provoca un piccolo scossone nel mondo delle società assicurative, in particolare nel mercato del ‘ramo vita’
Il successo della assicurazioni sulla vita
Le polizze sulla vita sono sempre state qualificate da giurisprudenza e dottrina come prodotti di risparmio e previdenza, e si caratterizzano per il fatto che il rischio assicurativo – vale a dire la permanenza in vita del sottoscrittore – grava interamente sulle spalle (belle larghe) della compagnia assicuratrice. Altri elementi tipici dei contratti assicurativi del ramo vita sono poi l’esclusione dall’asse ereditario del beneficiario delle somme ottenute, e l’impossibilità di assoggettarle a spossessamento fallimentare e a pignoramento.
Insomma, le assicurazioni sulla vita si giovano di un regime giuridico piuttosto favorevole per il consumatore, che ha contribuito nel tempo alla crescita opulenta del ramo: basti pensare che questa fetta di mercato genera ogni anno oltre 100 miliardi di euro di premi pagati contro i “soli” 30 miliardi delle assicurazioni per danni da sinistro!
Polizze vita Ramo III
Ultimamente, però, hanno cominciato a diffondersi prodotti assicurativi che potremmo definire ibridi, che cioè si collocano un po’ al crocevia fra polizze “classiche” e negozi di investimento.
Chiamate polizze vita del ramo III, presentano un rischio più elevato per il consumatore-persona fisica rispetto alle tradizionali assicurazioni sulla vita, essendo ancorate alle fluttuazioni del mercato finanziario e, a volte, non garantendo la totale restituzione del capitale.
In particolare, l’eventualità di non poter riottenere, alla scadenza del contratto (cioè al verificarsi dell’evento morte), almeno l’intero capitale investito, fa sì che la società assicuratrice si scrolli dalle spalle una bella quota di alea condividendola con l’assicurato – in cambio, d’altro canto, di prospettive di “guadagno” particolarmente allettanti per i beneficiari della polizza in caso di borse favorevoli. Mentre – lo ricordiamo – il combinato disposto degli artt. 1882 e 1919 c.c. prevede espressamente che i contratti assicurativi obbligano la compagnia assicuratrice a pagare un capitale al beneficiario al verificarsi di un evento attinente alla vita del contraente. Apparentemente, una contraddizione non da poco…
Cosa dice l’ordinanza di Cassazione n. 10333/2018
Su questa situazione, sono però intervenuti, la scorsa primavera, i Giudici della terza sezione civile della Corte di Cassazione, con l’ordinanza n.10333/2018 del 30/04/2018.
Il provvedimento in questione, accogliendo una sentenza della Corte d’Appello di Milano di condanna nei confronti di una compagnia assicuratrice, precisa che: al di là del nome juris, della terminologia utilizzata, contratti cosiddetti assicurativi che però non prevedano la restituzione totale del capitale investito al verificarsi dell’evento luttuoso, vanno rubricati a buon diritto come contratti di investimento. E come tali diventano pignorabili e assoggettabili a spossessamento fallimentare, e perdono le altre agevolazioni fiscali e civilistiche previste per gli strumenti assicurativi. La possibile perdita del capitale costituirebbe, quindi, nelle intenzioni della Cassazione, il discrimine fondamentale fra contratti di assicurazione e negozi speculativi.
Tale pronuncia ha portato un po’ di scompiglio nel settore delle assicurazioni, per via del potenziale effetto deterrente che l’ascrizione dei tali prodotti alla categoria “investimenti finanziari” (con la conseguente perdita dei benefici giuridico-economici di cui si diceva) potrebbe indurre presso il pubblico dei consumatori, rendendo queste polizze assai meno attraenti. E sarebbe un danno non trascurabile, visto che, ad oggi, si stima che le polizze del ramo III rappresentino circa ⅓ del totale delle assicurazioni sulla vita stipulate annualmente!…
La Corte ha inoltre specificato che, anche quando la polizza sia stata siglata da una persona fisica per il tramite di una società fiduciaria, il contratto produrrà i propri effetti non già in capo a quest’ultima, ma nei confronti della persona fisica assicurata/investitrice (come è ovvio che sia!). Da ciò deriva che, per considerare valido il rapporto contrattuale, gli obblighi informativi dovranno essere assolti con riguardo al livello di preparazione della persona fisica in questione – una preparazione certo meno approfondita di quella che può avere un fiduciario o un rappresentante di impresa.
Il parere dell’ANIA
Nei giorni successivi alla pubblicazione dell’ordinanza, l’ANIA (Associazione Nazionale Imprese Assicuratrici) ha diffuso un proprio comunicato “interpretativo” del provvedimento giudiziario, secondo cui gli Ermellini non avrebbero preso posizione circa la qualificazione delle polizze assicurative del ramo 3 tout-court, bensì si sarebbero limitati a un giudizio sul caso specifico: una situazione peculiare, con particolare riguardo all’esistenza di un soggetto intermediario – la società fiduciaria incaricata dall’assicurato di stipulare la polizza – che aveva mancato gravemente agli obblighi informativi nei confronti del proprio cliente.
Le suddette polizze vita – sostiene, infatti, l’organo rappresentativo della compagnie assicuratrici – “restano pur sempre contraddistinte da una garanzia di tipo finanziario-demografico legata alla vita dell’assicurato” e, dunque, non è messa in discussione la loro natura previdenziale (con tutto quanto ne consegue).
Concludendo
Ad ogni modo, in assenza di nuova giurisprudenza sulla materia e di ulteriori chiarimenti, la prudenza suggerisce agli assicuratori e intermediari finanziari di usare la massima trasparenza nelle comunicazioni al contraente, in accordo con quanto stabilito da T.U.F. (Testo Unico sulla Finanza) e Regolamenti Consob.